Divenuta subito virale – soprattutto tra gli appassionati di archeologia e della Cultura antica – la notizia del presunto ritrovamento dei resti delle leggendarie “Colonne d’Ercole” merita molta attenzione quanto cautela. Ecco cosa è accaduto nei fatti e cosa sappiamo in base ad un nuovo studio scientifico:
Anzitutto dobbiamo ricordare che le cosiddette Colonne d’Ercole sarebbero un presunto manufatto risalente al periodo greco-romano e ubicato all’incirca presso la Rocca di Gibilterra. Questo sarebbe stato il punto limite della conoscenza geografica dell’epoca. Un simbolo che, con il passare dei secoli, sarebbe stato considerato più una metafora dei limiti della conoscenza umana che non un luogo reale. Secondo la leggenda, Ercole ricevette da Euristeo l’ordine di catturare le mandrie di Gerione, terribile mostro a tre teste, con tre busti e sei braccia, figlio di Crisaore e dell’oceanina Calliroe. Gerione era il re dell’Isola dell’Eritea, situata nell’Oceano occidentale e che si estendeva fino ai confini di Tartesso. Gli armenti che Ercole avrebbe dovuto catturare erano sorvegliati da un pastore di nome Eurizione. Ercole attraversò la Libia e l’isola di Tartesso e infine giunse alle pendici dei monti Calpe e Abila, due ostacoli naturali che nel mondo antico delineavano i confini del mondo occidentale che gli uomini non dovevano in alcun modo oltrepassare. Sulle rive dello stretto di Gibilterra (sul quale si affacciavano i due monti), Ercole fece erigere due colonne, le quali erano sormontate da una statua che raffigurava un uomo. Essa era rivolta a est (ossia verso la direzione dalla quale provenivano i navigatori) e recava nella mano destra una chiave, quasi ad indicare l’intenzione di aprire una porta, mentre nella sinistra teneva una tavoletta che recava l’iscrizione non plus ultra, “non più oltre”. Con questa frase Ercole intendeva definire il limite del mondo civilizzato, sottolineando il divieto per i mortali di spingersi oltre, in direzione dell’Oceano. Secondo un’altra versione del mito, le colonne in realtà erano i resti dei monti Calpe a Gibilterra e Abila a Ceuta (i quali tra l’altro nel mito erano considerati all’origine della separazione tra Europa e Africa) distrutti da Ercole in un momento di ira. Inoltre:
Per Omero e per gli antichi greci tali Colonne si ponevano a Est, all’ingresso del Ponto Eusino, il mar Nero. Omero stesso lo definisce uno spazio senza confini e secondo Strabone i greci ai tempi di Omero immaginavano il Ponto Eusino come un altro oceano. Nell’Odissea non vi è l’equazione Colonne = Gibilterra, poiché il mondo greco allora orbitava tra il Mediterraneo orientale e il mar Nero: è solo del 637 a.C. che compare per la prima volta la terra iberica nelle storie greche. Questo è uno dei fatti che hanno portato Sergio Frau e successivamente l’Accademia dei Lincei Italiani a prima ipotizzare e poi spostare la collocazione delle antiche colonne d’Ercole al canale di Sicilia. Erodoto (484-425 a.C.) descrive due luoghi diversi per le Colonne. A est, nel Bosforo, quelle più antiche; a ovest, dopo Cartagine, quelle libiche, riflettendo in tal modo l’ampliarsi degli orizzonti ellenici. Neanche Platone, nel suo dialogo Timeo, parla però ancora di coste iberiche: cita sì il monte Atlante, ma in riferimento agli Iperborei (popolo posto a Nord dell’Ellade). A causa del monopolio cartaginese sul bacino occidentale del Mediterraneo la prima spedizione ellenica al di là di Gibilterra di cui si ha effettiva notizia è del 330 a.C., dopo, quindi, la morte di Platone (347 a.C.). Le colonne d’Ercole, dunque, rappresentano anzitutto un simbolo leggendario del limite della conoscenza e la loro scoperta sarebbe quasi equiparabile alla scoperta effettiva dell’anch’essa leggendaria Atlantide! Fatta questa lunga ma necessaria premessa, passiamo allo studio archeologico diffuso nel 2022:
Ricardo Belizón, un dottorato di ricerca studente all’Università di Siviglia, nel sud della Spagna, ha avanzato una nuova ipotesi, supportata dagli scienziati della sua università e dall’Istituto andaluso per il patrimonio storico (IAPH). Grazie al software gratuito e alla modellazione digitale del terreno, Belizón ha identificato le tracce di un edificio monumentale nel Caño de Sancti Petri, un canale poco profondo nella baia di Cadice , tra le città di Chiclana de Frontera e San Fernando, nella regione meridionale dell’Andalusia:
“Chi sa fino a che punto la terra si estendeva nel mare sul lato sud e quanta parte di questa terra doveva essere mare, in particolare in quella che ora è considerata palude?” Questa domanda fu sollevata nel 1794 dallo storico e viaggiatore Antonio Ponz, quando contemplò quei labirinti di mare e di terra che compongono la baia di Cadice. Ed è proprio a questa domanda che Belizón ha deciso di rispondere quando ha indagato su come fosse il paesaggio costiero di Cadice nei tempi antichi nella sua tesi di dottorato. Ma non si aspettava che la sua ricerca prendesse una svolta così sorprendente. “Noi ricercatori siamo molto riluttanti a trasformare l’archeologia in uno spettacolo, ma in questo caso ci troviamo di fronte ad alcune scoperte spettacolari. Sono di grande importanza”, ha affermato Francisco José García, direttore del dipartimento di Preistoria e Archeologia dell’Università di Siviglia, durante la recente presentazione della ricerca al Centro di Archeologia Subacquea di Cadice. Il tempio di Ercole Gaditano è menzionato nella letteratura greca e latina classica come il luogo in cui Giulio Cesare pianse amaramente davanti a una rappresentazione di Alessandro Magno e dove il conquistatore cartaginese Annibale si recò per ringraziare per il successo della sua campagna militare un secolo e mezzo prima. Tutti questi riferimenti menzionano “un ambiente mutevole, a contatto con il mare, soggetto al mutare delle maree, in un tempio dove dovevano esserci strutture portuali e un ambiente marinaro“, afferma Milagros Alzaga, capo del Centro di Archeologia Subacquea (CAS), che ha anche partecipato alla ricerca. Dopo decenni di controversie accademiche e diverse proposte per l’ubicazione del tempio, quella avanzata ora dall’Università di Siviglia e dall’IAPH rientra in un raggio indicato come il più ovvio:
Il sito è un enorme canale paludoso dominato da un isolotto e dal castello di Sancti Petri, che si erge sopra di esso. Da oltre due secoli la zona offre importanti reperti archeologici, oggi esposti al Museo di Cadice, come grandi sculture in marmo e bronzo di imperatori romani e varie statuette del periodo fenicio. Tutte queste scoperte hanno contribuito a delineare l’ubicazione del tempio di Ercole Gaditanus come situato da qualche parte tra le pendici dell’isolotto stesso e uno scivolo di sabbia fine e una zona rocciosa intercotidale, nota come punta di Boquerón. L’area esatta è stata definita grazie alla tecnologia nota come Digital Terrain Model (DTM) fornita dal National Geographic Institute e dal Navy Oceanographic Institute. “Abbiamo lavorato con i dati pubblici, con la modellazione digitale del terreno e con il software gratuito“, afferma Belizón. L’obiettivo era quello di tracciare il paleopaesaggio di 3.000 anni fa in un’area che è stata esposta alle variazioni del mare, all’erosione delle tempeste e ad episodi meteorologici catastrofici, come i maremoti. Il ricercatore ha scoperto diverse aberrazioni nel terreno che hanno rivelato “una costa totalmente antropizzata, con un grande edificio [il possibile tempio], diversi frangiflutti, ormeggi e un porto interno”.
Misurando 300 per 150 metri – come l’isola su cui sorgeva – la struttura rettangolare giace tra i cinque ei tre metri sott’acqua e sembra adattarsi alle descrizioni dei classici che descrivono sia l’ubicazione del tempio che la sua definizione di grande monumento fenicio. Secondo i classici, a questo complesso si accedeva attraverso due colonne, con un frontespizio che raffigurava le Fatiche di Ercole, all’interno delle quali vi era una fiamma eternamente ardente. L’area sacra era separata dall’attuale punta di Boquerón da un canale ed era accessibile alle navi fenicie, puniche e romane, divenendo famosa per il gran numero di presunte reliquie che custodiva dal mondo antico. Il lavoro digitale è stato contrastato con alcune prime indagini con la bassa marea quando è stato possibile documentare tracce di importanti conci e persino resti ceramici. Nonostante l’indagine sia in corso da quasi due anni, sarà necessario molto più lavoro sul campo archeologico per confermare o respingere quella che, per ora, è un’ipotesi, seppur avanzata. “Queste sono aree in cui è difficile lavorare e hanno scarsa visibilità“, afferma Alzaga.
La modellazione dell’antica costa di Cadice ha rivelato non solo il possibile tempio di Melqart, ma anche un porto interno o molo a sud del tempio, che fino a meno di due secoli fa era una zona alluvionale, e un importante insediamento lungo la costa con vari edifici prevalentemente di epoca romana ancora da definire. Complessivamente, copre un ampio spazio, più grande dell’intera area scavata della città romana di Baelo Claudia a Tarifa. “È più grande della superficie di Gades e le sue dimensioni potrebbero cambiare l’idea che abbiamo avuto fino ad ora di come fosse la baia“, afferma Antonio Sáez Romero, professore del dipartimento di Preistoria e Archeologia, che ha anche preso parte a la ricerca. La nuova ipotesi sull’ubicazione del tempio si sposa con vari ritrovamenti e proposte fatte nel corso del XX secolo, ma differisce anche da altre, l’ultima delle quali è L’ubicazione del santuario di Melqart a Gadir:
Contributo dei dati PNOA-LiDAR, di Antonio Monterroso-Checa, professore nel dipartimento di Archeologia dell’Università di Córdoba. Monterroso-Checa escludette la possibilità che il tempio fosse a Sancti Petri per modifiche orografiche e per la mancanza di nuove testimonianze, suggerendo invece che il monumento fosse stato edificato sul colle dei Martiri di San Fernando, anch’esso un tempo isola. Ulteriori ricerche chiariranno definitivamente il mistero che Ponz ha segnalato più di due secoli fa. “Con questo tipo di risultati eccezionali, possiamo anticipare noi stessi. Vogliamo essere molto cauti. Sono molto interessanti e pieni di speranza, ma è ora che inizia la parte più eccitante”, afferma Sáez.